Intervista del luglio 2015 e, mia opinione, sempre attuale.
E’ ormai diventata una consuetudine che, in occasione della proclamazione dei vincitori del World Press Photo, le polemiche siano le vere protagoniste. Gli esperti indipendenti che hanno esaminato le foto hanno rilevato diverse difformità in molti file e le hanno sottoposte alla giuria. Sono state squalificate il 20% delle immagini inviate perché considerate non in linea con il regolamento del concorso sulla post produzione in quanto ritoccate al punto tale da alterarne il contenuto.
In questa domanda e quindi nelle affermazioni da parte della giuria di WPP, ci sono troppe cose sottintese: “difformità”, “non in linea”, “alterare il contenuto” sono termini da definire e dovrebbero fare riferimento ad uno “standard”.
Spesso si sottintende che queste “difformità” od alterazioni siano nei confronti della realtà ma la fotografia in sé, non è la realtà, al massimo può provare a rappresentarne solo una piccola porzione.
Questa ossessione di confrontare la realtà, il negativo (RAW) e la stampa finale è il nodo del problema. La maggior parte delle esclusioni è avvenuta perché il paragone tra RAW e stampa finale metteva in evidenza, secondo i giudici, troppe differenze. Chi stabilisce che il RAW sarebbe più aderente alla “realtà” della stampa interpretata dal fotografo?
La fotografia, nella sua stessa definizione, è composta da ripresa, negativo e stampa: tre fasi imprescindibili. Quando alcune fasi si uniscono, come nella fotografia “istantanea”, uno smartphone o una vecchia Polaroid, è solo perché qualcun altro ha preso delle decisioni al posto nostro. Gli ingegneri Apple o i chimici Polaroid hanno standardizzato il processo di sviluppo e stampa imponendo di fatto uno stile ben preciso. Quando invece noi controlliamo tutte le fasi, abbiamo la possibilità di decidere il nostro stile. Si scatta per sviluppare e si sviluppa per stampare; Ansel Adams stesso, pioniere della fotografia moderna, inventore del sistema zonale, ammetteva che non era una sua idea ma la semplice codifica dei principi della sensitometria. L’idea quindi che meno si lavora sul negativo e più questo rappresenti la realtà non ha senso.
I detrattori della fotografia digitale puntano il dito sul fotoritocco, come vera piaga della fotografia contemporanea, dimenticando però che anche nell’era della fotografia analogica il foto-ritocco era utilizzato regolarmente. Sarà pure una domanda ricorrente ma utile a ribadire il tuo pensiero.
Anche questo è un pregiudizio ricorrente. Il paragone con la fotografia analogica, anche a difesa di quella digitale, è ancora più pericoloso. L’atteggiamento comune è: se era lecito analogicamente allora è lecito digitalmente.
La verità è che la differenza tra fotografia analogica e digitale è fondamentalmente legata alla tecnica di raccolta dei dati. Nessuna delle due è la realtà e nessuna delle due potrebbe esistere senza consistenti scelte interpretative.
Il “fotoritocco”, inteso come la modifica sostanziale del contenuto registrato dal sensore/pellicola, è semplicemente una scelta interpretativa estrema alla ricerca di un’estetica.
La domanda che ci dovremmo porre è quale estetica stiamo cercando e perché. Se cancelliamo un carro armato o aggiungiamo un missile, perché lo stiamo facendo?
La differenza tra giornalismo e propaganda è da cercare li.
Avrebbe lo stesso impatto far sparare un razzo di proposito ad un soldato o chiedere ad un carrista di girare l’angolo o magari semplicemente aspettare che il carro armato giri l’angolo da solo.
E’ in ogni caso il fotografo a decidere quale “realtà” raccontare. Photoshop è solo uno dei tantissimi possibili mezzi per farlo.
Ritieni che la figura corrispondente allo stampatore sia quella del post produttore?
Il post produttore ha degli strumenti molto più sofisticati, tutto qui.
Può più facilmente aiutare l’autore a trovare la propria estetica e di conseguenza aiutarlo ad essere più sincero o al contrario più bugiardo.
In più, sul piano tecnico, la gestione numerica, ci permette un controllo, soprattutto legato al colore, che analogicamente era molto complesso.
Chi non ricorda il rosso Kodak o il verde Fuji … Ora il rosso o il verde lo decidiamo noi con i nostri parametri e le nostre scelte.
Intanto, il “vero” colore di qualcosa non esiste o meglio ne esiste uno per ogni contesto e per ogni attribuzione della nostra memoria.
Il fotoritocco può essere una forma d’espressione artistica in sé?
Qualsiasi scelta può essere un’espressione artistica.
Pensa ad un regista, fisicamente non fa quasi niente, ma la sua direzione crea un’opera.
Può essere artista quindi un post produttore, un montatore, un grafico o anche un fonico.
Ci puoi illustrare il tuo lavoro ed il rapporto di collaborazione che instauri con l’autore delle foto che ti accingi a post produrre.
Ormai faccio questo mestiere da oltre 20 anni. Ho passato giorni e notti insieme a fotografi per trovare insieme una strada.
Con altri invece c’è stata una “magia” di intese, come in certe storie d’amore, il fotografo scatta pensando a me e io lavoro sull’immagine pensando a lui, spesso senza nemmeno parlarsi al telefono, ci si capisce e basta.
Poi ci sono quelli che non hanno capito niente, che vogliono le foto come “quel fotografo famoso”, come “quella che ha vinto quel premio l’anno scorso” ecc ecc.
Questo atteggiamento è completamente autodistruttivo per gli autori. E’ come se la foto in sé non fosse niente e tutto il significato fosse riposto nella scelta estetica aggiunta.
Naturalmente non voglio sminuire il mio mestiere, ma se io stesso non trovo un significato nelle immagini che lavoro, non posso di certo interpretarle.
Ho letto che hai svolto dei workshop sull’etica e tecnica della post produzione per il reportage fotografico. E’ evidente che l’etica nella post produzione foto-giornalistica risulti un argomento quanto mai attuale ed opportuno in tempi in cui l’amplificazione e ripetizione delle notizie ed anche la concorrenza sfrenata fra i vari canali d’informazione può portare ad interventi che possono sconfinare nella falsificazione.
Qual è per te il confine etico, il limite dell’intervento nella post produzione?
Cercare questo limite negli strumenti significa annunciare delle regole già vecchie, sorpassate.
Io non credo che possa esistere una formula per l’onestà, per l’etica. Sicuramente esistono dei contesti e di volta in volta le regole cambiano.
L’unico dato, l’unica regola, che almeno io, nel mio flusso di lavoro, sostengo è che non si possano “spostare” le cose. Per spostare intendo naturalmente i pixels ma anche i colori.
E’ un po’ complesso ma provo a spiegarmi rapidamente: se scurisco una foto, tanto, tantissimo, al punto di non fare vedere più il dettaglio nelle ombre, sto facendo una scelta stilistica.
La potrei fare sottoesponendo in ripresa, usando materiale ad alto contrasto, utilizzando un flash.
Se invece non “nascondo” ma “sposto”, cioè metto qualcosa al posto di qualche altra cosa, allora sto dichiarando che c’è qualche cosa che in realtà non è li: è diverso da non far vedere.
D’altronde per impedire di nascondere qualcosa ad un fotografo bisognerebbe impedirgli di scegliere cosa inquadrare.
Ormai sono anni che ripeto la stessa cosa : il fotogiornalismo, a differenza di altre forme artistiche visuali, è prodotto da tante persone.
Non c’è solo un fotografo con una macchina in spalla che va in giro per il mondo e poi fa vedere le foto al mondo ma c’è anche un fotografato, un photoeditor che commissiona il lavoro, un direttore che supervisiona e sceglie cosa pubblicare, un editore che paga e sceglie cosa (non) pubblicare, un lettore che sceglie cosa comprare e in cosa credere e sicuramente anche un post produttore.
Quello che dovrebbe rendere onesto il fotogiornalismo è questa “filiera”.
I casi di (foto)giornalismo disonesto, la maggior parte delle volte, sono venuti fuori perché la testa e la coda di questa catena non combaciavano.
Il fotografato, nelle vesti di lettore non si riconosceva, sentiva di essere stato frodato e allora l’assistente del fotografo diventato membro di una gang o il sindaco della città raccontata come l’inferno hanno raccontato la loro versione della storia.
Ma anche qui bisogna fare molta attenzione, perché si finirebbe per depotenziare completamente il fotogiornalismo per accontentare sempre tutti.
E’ un complicatissimo equilibrio. In tutto ciò Photoshop è solo un mezzo ed è troppo facile dare la colpa ad uno strumento.
Molto spesso le immagini nelle pubblicità, soprattutto nelle riviste patinate, finiscono sotto accusa in quanto si ritiene che non rappresentino la realtà perché ritoccate pesantemente. Il confine fra vero e falso diviene sempre più effimero.
Anche qui ritorniamo al discorso etico e all’influenza che immagini non veritiere possano influenzare il fruitore.
Vero.
Ma la differenza è che un fotografo di moda o meglio un pubblicitario, per definizione, non deve raccontare la verità.
Quindi moralmente è senza dubbio più giustificato trasformare il viso di una cantante famosa, con qualche segno del tempo, in un simbolo metaforico di bellezza e successo o far credere che un biscotto industriale sia frutto del lavoro di un piccolo artigiano rappresentato da un attore famoso?
Ci crede qualcuno? fa finta di crederci perché è più semplice che cercare un forno vicino casa o meglio ancora impastare farina lievito e burro?
Anche qui, non si può di certo accusare il fotografo, il ritoccatore o l’editore del giornale.
Sarebbe meglio rivedere i nostri riferimenti e passare più tempo ad interrogarci su cosa ci piace davvero e cosa ci fa solo sentire appartenenti ad una comunità.
La pubblicità, sempre di più, vende stati d’animo, senso di appartenenza e non prodotti.
Il problema è che questo sta accadendo anche nel giornalismo e, finché non si scriveranno nuove regole, la differenza tra uno “storyteller” ed un giornalista creerà grandi ambiguità.
Nulla contro il racconto costruito, con una regia. Anzi, io penso che sia il modo più onesto di trasmettere storie.
D’altra parte chi ci garantisce che un “fotogiornalista” sia più onesto e meno autoreferenziale di un regista o uno “storyteller” ?
L’importante è dichiarare da subito i propri intenti e gli strumenti che si usano.
La post produzione è parte considerevole del risultato finale di un immagine fotografica. Però non viene quasi mai dichiarato il contributo di chi fa questo lavoro.
Questo fa parte di una consuetudine, soprattutto nel fotogiornalismo, per cui, come nella pubblicità, è meglio far credere al lettore che le cose siano più semplici di quanto in realtà siano davvero.
Questo la dice lunga sull’onestà e l’autoreferenzialità di certi fotogiornalisti. La scusa è che risulta complicato spiegare ai lettori cosa fa un post produttore.
Una volta, in un importante festival di fotogiornalismo internazionale, ho trovato il nome di un altra persona al mio posto nel colophon di una mostra di un famoso fotografo, con cui lavoravo. Era il nome di chi aveva “stampato”, quello che aveva messo i fogli nella stampante e premuto “print”.
Evidentemente per il fotografo era facile giustificare la presenza di uno stampatore, ma complicato condividere la costruzione di un’estetica con qualcun altro.
In cosa consiste lo stile del laboratorio 10b, ormai conosciuto in tutto il mondo, e che è chiamato appunto stile 10b.
Il 10b ormai fa parte del mio passato. E’ stata una fase molto importante della mia carriera e della mia vita.
Mi sono confrontato con una dimensione “industriale” della post produzione nel bene e nel male.
Proprio per la semplificazione di cui parlavo prima è stato facile per un tipo di pubblico associare il laboratorio di post produzione più famoso, almeno nel fotogiornalismo, ad un unico stile.
In realtà, prima io da solo e poi con tanti collaboratori che si sono alternati, il 10b ha lavorato per fotografi completamente diversi e con stili completamente diversi.
Spesso mi chiedono di lavorare con uno stile che spesso appartiene al mio passato, che è stato figlio di momenti storici e visivi, quando invece il vero valore di lavorare con un post produttore e non da soli dovrebbe essere proprio quello di avere altri due occhi ed una testa per cercare nuove strade e nuovi stili personali.
Un esempio per tutti: anni fa, nella fotografia di guerra, amavo dare un impronta televisiva alle immagini di un noto reporter. Parlo di un’impronta simbolica, costruita su evocazioni cromatiche tipiche del tubo catodico.
Dopo il successo di alcune di queste immagini, molti mi chiedevano di lavorare con lo stesso stile ma quello stile funzionava su quel fotografo, in un momento storico in cui la televisione arrivava prima della guerra stessa.
Oggi si potrebbe evocare instagram, hipstamatic o qualsiasi applicazione per smartphone per avere un risultato culturalmente simile.
Personalmente, insieme ai fotografi con i quali lavoro, in questo momento cerco delle visioni legate alle storie specifiche, alla luce diversa per ogni paese, al mezzo che racconterà la storia.
E’ la parte più interessante di questo lavoro che ti costringe ad essere curioso ed osservare con attenzione.
Per questo ora preferisco lavorare in un ambiente più artigianale, in un piccolo studio dove coltivare rapporti più reali tra persone.
Cosa si insegna nei corsi di Photoshop e post produzione che si tengono al 10b Photography gallery?
Come dicevo, non faccio più parte del 10b photography, quindi non saprei rispondere.
Io insegno in una scuola a Roma da tantissimi anni e mi piace e per il resto cerco di fare workshops brevi, specifici, legati soprattutto all’interpretazione e alla percezione.
Ci sono dei consigli che ti senti di dare a chi post produce da sé le proprie immagini?
Vi consiglio di non pensare che quello che produce una macchina fotografica sia vero, di non pensare che meno “modifiche” (odio questa parola) si fanno al negativo (RAW) più la foto sia vera, che le impostazione automatiche, sia in ripresa che in post produzione, tendono ad omologare tutto.
Se si apre un raw e non si fa niente, si sta semplicemente facendo quello che ci suggerisce qualcun altro.
Questo è un pensiero difficilissimo da scardinare, lo vedo nelle mie classi, ma quando si capisce, si è finalmente liberi di interpretare le proprie foto senza il senso di colpa di “modificare” qualcosa.
Infine consiglio: non passate più tempo a post produrre che a scattare, il computer è il vostro strumento non voi il suo.
Claudio Palmisano - Bio
Lavori
James Nachtwey – Time:
Syrian Refugees –
Japan one year later
Yuri Kozyrev – Time:
Dispatch from Yemen –
Devastation in Homs –
Cuba– Havana
Marcus Bleasdale –
Wins Robert Capa gold medal
Time – Best photo journalism of 2014
nel sito di Claudio –
Time Covers –
Tearsheets –
Books –
Special Projects –
Fin Whale in Lampedusa, March 2017
Ha lavorato, lavora e lavorerà con fotogiornalisti straordinari come Yuri Kozyrev, James Nachtwey, Francesco Zizola, Marcus Bleasdale, Lynsey Addario, Adam Ferguson, Alessandro Cosmelli, Gaialight, Tanya Habjouqa, Anastasia Taylor-Lind, Marco Longari, Stanley Greene, Massimo Siragusa, Paolo Pellegrin, e molti molti altri.
Biografia
Claudio Palmisano (Roma, 9 gennaio 1972)
www.claudiopalmisano.com
Diplomato all’istituto superiore di fotografia di Roma nel 1992, lavora per diverse testate nazionali ed internazionali come fotogiornalista.
Si occupa successivamente di fotografia commerciale, sviluppando, grazie al suo background informatico, un interesse per la fotografia digitale.
Diventa consulente di diversi fotografi, agenzie ed infine lavora come post produttore freelance, specializzato nella fotografia editoriale di reportage.
Nel 2006 è cofondatore dello studio 10b photography di Roma, con Francesco Zizola.
E’ tra i docenti dell’istituto superiore di fotografia dal 1999 ed ha un intensa attività di consulenza e workshop.
Pubblica come fotografo su: The New York Times, Paris Match, International Herald Tribune, l’Espresso, la Repubblica, L’Unità, il Manifesto, Berlingske Tidende, Business Week….
Lavora per: Saatchi & Saatchi, Renault, Magnumphotos, NOOR, VII, Contrasto, National Geographic , Phard, YELL, Comune di Roma, Provincia di Roma, Provincia di Perugia, Blue Panorama Airlines, Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata, Scuola Romana di Fotografia, RCS, Mondadori, Telecom Italia, Policlinico Gemelli,
Guardia Costiera Italiana …
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